lunedì 14 maggio 2018

Sulla luna siamo arrivati... e Marte?



Attenzione, post lungo, balbettante e controverso

Ho sempre pensato che fossimo liberi.
Intendo noi “Millennial”.
Noi figli di internet, dei sessantottini, dei meravigliosi anni che vennero dopo.
Ho sempre pensato che potessimo fare tutto.
Insomma, abbiamo visto i computer nascere ed evolversi, il Muro cadere (oggi, nell’89), i confini ingrandirsi, il mondo connettersi. Siamo stati cresciuti a pane e “yes, you can”, anche prima che arrivasse Obama. Siamo stati coccolati da famiglie benestanti, da un’infanzia tra merende e biciclette, da insegnanti severi ma non troppo.
Noi, che adesso abbiamo 25, 30, 35 anni. Ho sempre pensato che potessimo fare tutto. Perché abbiamo visto i grandi cambiamenti del mondo e il motto “everything is possible” ce lo siamo portati dentro fin dall’adolescenza.

Qualcosa, però, forse non ha funzionato, perché non siamo liberi. Se la cosa più importante, in questa vita, è non avere paura, io ne vedo tanta.
La paura dei giudizi altrui, del pettegolezzo di paese, delle etichette. Altro che tag. Essere incasellati spaventa ancora, noi portatori del pensiero libero e veloce del web, eppure non possiamo farne a meno. Spesso, viviamo in grumi di case e in uffici sempre uguali, e lavoriamo su noi stessi per essere “normali”. Cioè abbastanza equilibrati da non fare gli “strani” e tenersi la scrivania. Mantenere l’apparenza. E magari un posto fino alla pensione. La stessa mensa con lo stesso menù tutte le settimane. Le stesse macchinette per il caffè. Meglio se appena fuori dalla porta. Lo stesso tratto di strada tutte le mattine, partendo e tornando alla stessa ora. L’apparenza di una “vita”. Niente scossoni, ma soprattutto niente anomalie. “Come stai?” “Tutto bene”. Altro che lavoro flessibile. Il nostro sogno è, ancora, il contratto a tempo indeterminato – quello che mette tranquillo te, i tuoi genitori, i tuoi amici. Che non devono imbarazzarsi troppo, se sei disoccupato o vivi di contratti a chiamata. Che devono poter dire: “Il mio amico/Mio figlio fa/è/lavora per”. Per semplificare le conversazioni del venerdì sera davanti a una birra tiepida, con troppa schiuma, in un bar che è sempre lo stesso, anche se nel frattempo ha cambiato nome. Cerchiamo la stabilità a tutti i costi, come se nessun web, nessuna grande rete invisibile, miracolo dei nostri anni, fosse stata creata dal niente davanti ai nostri occhi, come se nessun muro fosse caduto, come se non avessimo più niente a cui tendere. Non vogliamo correre rischi. Possiamo fare tutto, ma non vogliamo uscire dalle linee bianche della strada che hanno preparato per noi. Per senso del dovere o di colpa. Sulla luna sono già arrivati, e quel desiderio di conquista di “qualcosa” lo barattiamo per una vita sicura. Sulla luna sono già arrivati, e a noi di arrivare su Marte non interessa un granché. Non ci fa sognare. Non ci provoca quell’attrazione verso le stelle, verso l’oltre, verso qualcosa “di più”. Abbiamo i nostri problemi qui e ora, e ci bastano. Noi che sognavamo di fare gli astronauti.

E quindi, cosa dico a quell’amica che, invece di lavorare in fabbrica, vorrebbe diventare un operatore sociosanitario? C’è la formazione da fare. Ci sono i corsi la sera, che costano. E la fabbrica è un posto sicuro. Ho io il diritto di dirle: “Osa”?

Tranquilli, invece che liberi. Per non far preoccupare quei genitori sessantottini che si sono sposati con uno stipendio solo e in viaggio di nozze ci sono andati sì, ma da una zia a Torino. Quei genitori che magari non hanno fatto enormi sacrifici, ma li hanno comunque fatti, vestendo tutti i bambini di una stessa famiglia con gli stessi vestitini riusati all’infinito e che scandiscono gli anni di matrimonio legando gli eventi più importanti alla nascita dei figli o all’arrivo della macchina nuova. “Ti ricordi la Cinquecento blu con la striscia sul cofano gialla?” Non vogliamo farli stare in pensiero. Non possiamo. Perché ci hanno cresciuto. E soprattutto, in un meccanismo strano e complicato, vorremmo essere come loro. Mettere su famiglia, come hanno fatto loro. Andare ai battesimi dei nipoti e ai matrimoni dei cugini, in un ciclo perpetuo, riunirsi per natale e pasqua. Tradizioni. Tradizioni, ovunque. Anche quando non ci piacciono o vorremmo costruirci le nostre. Noi, così liberi, non ci liberiamo dalle tradizioni. Neanche da quelle che non ci convincono, o o tanto, o che hanno finito per farlo per quieto vivere. Ed ecco, di nuovo, le etichette. Se rimani single, c’è qualcosa che non va (qualcuno, dietro, bisbiglia “zitella” – perché ci vuole la figlia zitella in famiglia, è un cliché, e a noi piacciono i cliché). Se non vuoi avere figli, c’è davvero qualcosa che non va, perché un nipotino, non me lo fai? Magari anche due o tre. Un maschio e due femminucce, no? Che figlio unico fa brutto. Chi non può averne soffra. E ci sarà sempre la signora del paese che parlerà di te, mentre prende il cappuccino al bar, “Quello è il figlio non sposato, sai. Meno male che i fratelli hanno pensato ai genitori e hanno fatto qualche nipotino”. Come se dovessimo fare i figli per gli altri. Come se la nostra genitorialità fosse una casella da spuntare nella lista delle cose della vita: “Figli. Fatto”. Ma noi siamo liberi, giusto?

E quindi cosa dico all’amico che sente che la sua relazione non funziona più e mi dice: “Sono in trappola e non posso uscirne? Sai, la famiglia, la gente…”

Ma siamo liberi. Liberi di lavorare, di metter su famiglia, ma alle condizioni degli altri. E anche se pensiamo di non esserne condizionati, in realtà già lo siamo. E soffriamo di fronte ai canoni non corrisposti, agli amici con prole, all’orologio biologico che ticchetta, qualunque cosa voglia dire. Dimenticando che ogni vita ha un ritmo suo. L’importante è evitare gli scandali, non far parlare troppo i compaesani e garantire ai genitori una vecchiaia felice. Perché un genitore felice ha caratteristiche ben precise: ha dei nipotini, dei figli con un lavoro stabile (o stabilissimo), il pranzo della domenica. Tutto regolare.

Ora. Cos’è questo post? Un rigurgito di invidia? La mia bile vomitata addosso a chi sta facendo la vita che vorrei? Nì.

Perché a) non c’è niente di male, in assoluto, in tutto questo schema. Cosa c’è di sbagliato a volere una famiglia, un lavoro sicuro? Niente. Ma. La distorsione si sviluppa quando noi, noi giovani “liberi”, pensiamo che “tutto questo” sia l’unica via percorribile. Quando accettiamo che qualcun altro decida, anche indirettamente, come dobbiamo sentirci, pensare, vivere. Quando ammettiamo di sentirci "inferiori" se il Grande Progetto non si avvera.

E buonanotte ai Millennial. Buonanotte a chi, come noi, aveva tutti gli strumenti per salutare il Duemila senza preconcetti di alcun tipo, senza paure, se non quelle risolvibili, e sì, senza angosce.

E poi perché b) io non sono diversa dai miei coetanei. Volendo fare la figa indipendente, ho scoperto che desidero le stesse cose che vogliono loro, di cui sopra.

E quindi? Cosa dico a me stessa, che di tutte le tappe che società, famiglia e signora col cappuccino si aspettavano che io raggiungessi, alla soglia dei 30 non ne ho raggiunta neanche una?
Su, che cosa mi dico?
Un bel niente.

Ho sempre pensato che fossimo liberi, noi di 25, 30, 35 anni. Perché c’erano tutti i presupposti.
Ma negli occhi di chi incontro al bar, davanti a quella birra tiepida, vedo qualcosa di diverso.
Vedo l’incertezza dettata non solo dalla “crisi” e derivati, ma insinuata dalla mancanza di un attributo che ci hanno dato alla nascita, per il cordone ombelicale, e che ci siamo persi per strada e che ci fa andare avanti seguendo i pregiudizi e scansando i pettegolezzi.
La speranza.
Speranza di costruire una vita che sia davvero, e senza dubbio alcuno, la nostra.

Ecco, mi aggrappo alle mie relazioni instabili, al mio lavoro instabile, al mio conto corrente instabile e penso che qualcosa di buono ci sarà, in questa “liquidità” (cit.) Che i miei genitori saranno contenti lo stesso, lo sarà la signora del cappuccino, lo sarò io, a un certo punto.

Libera di pensare: “E quindi?”
Libera di dire, a un certo punto, “chissenefrega”.

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