martedì 9 ottobre 2018

Incapaci di convivere




Sono andata di recente nella valle del Vajont. Non è per tutti gli uomini o per tutti gli alberi vivere con la schiena dritta su quelle rive. Ho visto una montagna aspra, sassosa, instabile. Ferita. Affascinante, anche se burbera.

 
Con mio papà - ingegnere incallito - abbiamo discusso molto sulle responsabilità e le cause del crollo del monte "marcio". Lui sta dalla parte dei tecnici, e all'inizio non capivo, pensavo, come pensava Tina Merlin, che avessero solo insabbiato tutto, che ci avessero guadagnato e che non abbiano pagato abbastanza. Lui, come sempre, ha preso la mia visione e la messa dentro un frullatore. La verità è una, ma forse non è vero neanche questo. Forse quei tecnici non avevano davvero gli strumenti per prevedere una mattanza di simile portata. Forse c'era più di un italiano che ha chiuso un occhio per averli tutti e due ben illuminati da elettricità domestica a buon mercato. Forse la natura ci ha messo del suo per redarguire, ancora una volta, noi piccoli esseri umani.

Già pensare di abitarla, una valle così, richiede un'umiltà che non abbiamo dimostrato, cinquant'anni fa. Abbiamo sbagliato. Dico "noi" perché provo a pensare se fosse stato il mio di ingegnere, il mio papà, a firmare quei progetti: cosa avrebbe detto o fatto? Chi può lavarsi via dal cuore e dalla coscienza una tragedia? Come uomini, abbiamo sbagliato, e altri esseri umani sono morti. Una storia che si ripete ciclicamente anche fuori da una valle spesso dimenticata. Ma non stasera. Stasera si ricorda. Ricordiamo che, a quest'ora, in questo momento, il fango ancora fresco soffocava Longarone e faceva smettere di battere i cuori, corpi erano stati distrutti, case frantumate, prati erosi. Adesso, a quest'ora, forse cominciavano ad alzarsi i primi gridi, quelli degli animali della valle, che piangevano. Poi le grida di chi era sopravvissuto, e da Longarone alta guardava un teatro di devastazione. Che cosa mi fa ricordare quel 9 ottobre?

L'incapacità di natura e uomo di convivere. Ancora una volta. E la speranza. La speranza che gli uccelli, in montagna, non cantino più quei gridi di morte.

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